Lotta di classe in America

Lo Yale Daily News Magazine (copertina di Novembre 2013)

Lo Yale Daily News Magazine (copertina di Novembre 2013)

Anche se a qualcuno non piace ammetterlo, la società americana è divisa in classi, più o meno rigidamente distinte, come tutte le altre nel resto del mondo. Ma, nonostante la crisi degli ultimi anni – che ha falcidiato la classe media, impoverendola e assottigliandola in misura significativa – gli Stati Uniti ospitano ancora il “sogno americano”.

Una delle leve più importanti ed efficaci sulle quali agisce l’ “ascensore sociale” è la formazione, che in America – pur con tanti e palesi difetti, soprattutto alla sua base – presenta eccellenze riconosciute in tutto il resto del mondo. Specialmente nelle università.

Il logo dell'Ivy League (da wikipedia)

Il logo dell’Ivy League (da wikipedia)

Al vertice del sistema d’istruzione c’è l’Ivy League, il club delle otto più prestigiose università private degli USA. Tra di esse la più antica è Harvard, la cui fondazione risale al 1636; seconda per età è Yale, del 1701.

E proprio a Yale – dove, un anno di corso costa in media 57mila dollari, il livello più alto di sempre – si sta affrontando il tema delle differenze di classe sociale tra gli studenti universitari. Un articolo del news-magazine dell’ateneo (“We Don’t Talk About It”) mette a fuoco il problema e suscita alcuni interrogativi, soprattutto alla luce dell’impegno tutt’altro che simbolico che Yale sostiene per favorire l’accesso degli studenti economicamente più svantaggiati.

[Tutti i numeri di Yale, qui: http://oir.yale.edu/sites/default/files/FACTSHEET(2012-13)_3.pdf].

Yale: sostegno economico ai più poveri
Come altre università dell’Ivy League, infatti, Yale arriva a finanziare fino al 100% dei costi, se lo studente bisognoso dimostra la fondatezza delle sue richieste: è il caso di chi provenga da una famiglia con un reddito inferiore a 60mila dollari l’anno. Tutto ciò fa sì che ben il 56% degli iscritti – quelli che provengono da famiglie che guadagnano meno di 200mila dollari l’anno – riceva qualche forma di sostegno.  Sembrerebbe un atteggiamento generosissimo, ma è la statistica che guida certe scelte: in America solo il 4% della famiglie guadagna più di 200mila dollari l’anno; mentre per il 50% degli americani le tasse universitarie da versare a Yale equivalgono all’intero guadagno annuale.

Vista così, più che di una scelta “umanitaria” del senato accademico, quella di sostenere l’accesso dei più poveri è soltanto una scelta logica, premiata dal successo. Infatti, a partire dal potenziamento dei programmi di sostegno economico – nell’anno accademico 2007-2008, quello della crisi – le immatricolazioni a New Haven (la sede di Yale, nel Connecticut) sono cresciute in misura molto significativa.

YALE: immatricolazioni e percentuale degli studenti che ricevono un aiuto economico

YALE: immatricolazioni e percentuale degli studenti che ricevono un aiuto economico

Ma torniamo all’articolo dello YaleDailyNews, che “mette il dito nella piaga”: il prblema delle differenze di classe c’è, ma gli studenti – tra di loro – preferiscono non parlarne: è un tema troppo “scabroso”.

Thomas, un “povero” di Detroit
Vi si racconta, tra le altre, la storia di Thomas, studente povero di Detroit (“ho fatto tutte le superiori con i buoni pasto dell’assistenza sociale”, dice lui; quindi era povero davvero). Thomas racconta di aver notato per la prima volta le evidenti differenze tra il “suo” mondo e quello degli altri studenti guardandoli ballare durante le feste studentesche. Non si sapevano muovere a tempo di musica; non come i suoi amici di Detroit – meno ricchi, meno ben vestiti – ma sicuramente più sciolti nella danza. Gli studenti che aveva intorno a Yale non badavano troppo alla sua condizione economica, ma trovavano comunque che fosse un tipo un po’ troppo “rumoroso”, almeno a giudicare dal volume della sua voce. A casa non ci badava, a Yale invece sì. Comunque, entrato nel programma di aiuti economici “Leadership Enterprise for a Diverse America” (LEDA), Thomas ha studiato a Yale. E alla sua famiglia di origine, nella Detroit del default finanziario, ha confessato: “Io qui non ci ritorno”.

Il caso di Thomas è emblematico: entrare a Yale (e uscirne, poi, con successo) significa poter cambiare status sociale. Ma solo se si apprendono anche le “buone maniere”. Non tutto, infatti, è lineare, né semplice. Le differenze ambientali tra gli individui – il modo di esprimersi, lo stile di vita, i consumi – si riflettono nell’enorme distanza che separa, pur all’interno dell’ateneo, i poveri dai ricchi.

Per far fronte a tale oggettiva disomogeneità, Yale organizza corsi estivi di preparazione (per esempio il “Freshman Scholars at Yale program“): soprattutto di lingua inglese. L’obiettivo è quello di portare, a ridosso dell’avvio delle lezioni, tutti gli studenti (quasi) allo stesso livello, almeno per quanto riguarda la comprensione dei testi.

Le differenze di classe nei dettagli
Nonostante tutti gli sforzi, i ricchi sono davvero tanto diversi dai poveri; non solo a Yale.
Lo si vede da alcuni particolari. Un MacBookPro, in America, costa 1300 dollari. Ce ne sono tanti, nei campus; ma se consideriamo che quella cifra è esattamente la metà del contributo ricevuto dagli studenti più bisognosi, si capisce anche a chi appartengano quei gioiellini tecnologici, aperti in blblioteca.

Stesso discorso per gli spostamenti. Viaggiare costa. Solo chi può permetterselo approfitta dei periodi di riposo universitario per farlo. Chi non può, rimane a casa. E allora, poiché chi viaggia arricchisce il proprio patrimonio culturale e amplia la sensibilità, ecco che anche la possibilità di spostarsi torna a costituire un gap tra ricchi e poveri.

L’articolo – una vera e propria ricerca sociologica sul campo che analizza anche le risposte a un questionario anonimo distribuito tra gli studenti durante la scorsa estate – è davvero molto ricco e merita di essere letto per intero.

A noi basta segnalare che – persino nell’Ivy League, la crème de la crème dell’istruzione universitaria mondiale – si affrontano i problemi che stanno alla base delle nostre società. Persino a Yale. E da noi?

L’austerity dei ricchi è una beffa per i poveri

David Cameron al banchetto del sindaco

David Cameron al banchetto del sindaco


Al tradizionale banchetto di Stato offerto dal sindaco di Londra, David Cameron ha tenuto un discorso sul suo impegno per la causa dell’austerità permanente. Seduto su una sedia d’oro, ha letto il suo intervento da fogli appoggiati a un leggio d’oro.

Traduciamo qui di seguito l’intervento di Ruth Hardy, cameriera e spettatrice dell’evento, pubblicato sul Guardian il 13 NOvembre 2013.

Nella sua spontaneità e chiarezza, è un meraviglioso manifesto della lotta di classe nel XXI secolo, anche se forse – visti i toni smussati e per nulla ideologici utilizzati – non stimolerà l’accendersi di una rivoluzione. Cameron digerisca tranquillamente…
Comunque vada: GRAZIE, RUTH! 

Ruth Hardy

Ruth Hardy

C’ero anch’io al banchetto. E ho sentito le notizie su tagli di spesa permanenti che riguardano me direttamente. Purtroppo non ero lì come dignitario o diplomatico straniero; né come capitano d’industria o direttore di una grande azienda della città. Ero lì come cameriera.

Il contrasto tra i contenuti del discorso di Cameron e il luogo dal quale lo stava pronunciando all’inizio mi sembrava quasi troppo ridicolo per essere preso sul serio. Ma, in realtà, ciò riflette un aspetto agghiacciante dell’atteggiamento di Cameron verso la gente per la quale afferma di lavorare.

Doppio lavoro: cameriera e tirocinante
Io lavoro in serate e week-end per una società che cura eventi. L’azienda è grande e gli orari sono flessibili: questo mi permette di combinare questa attività con un tirocinio, che è il mio lavoro principale. È dura: ho vissuto gli ultimi due mesi in uno stato di spossatezza. Lavoro in eventi interessanti e la suggestione del banchetto di Guildhall mozzava il fiato. Anche se, come uno dei miei colleghi ha detto: “Ho pensato che il sindaco è Boris Johnson: è l’unica ragione per cui ho accettato di lavorare!”

Il banchetto visto dall'alto

Il banchetto visto dall’alto

Il menu
Gli ospiti sono stati accolti con coppe di champagne; poi sono stati serviti un antipasto (“un trionfo di funghi britannici”), un piatto di pesce e poi la portata principale: un filetto di manzo, il tutto servito con vino, naturalmente. Cameron ha parlato durante la pausa, prima del dolce, durante la quale sono stati serviti: caffè, vini da dessert, porto, cognac e whisky.

La servitù
Noi ci siamo ritirati al piano di sotto, in una cucina piena di vapore, dove abbiamo lucidato le posate. Eravamo esausti: servire a cena è un lavoro fisicamente impegnativo, e io sono l’unica persona che fa due o tre lavori diversi. Il contrasto tra i due mondi era impressionante, qualcuno ha detto che era come una scena di Downton Abbey (http://it.wikipedia.org/wiki/Downton_Abbey) (una fortunata serie Tv trasmessa da ITV nel Regno Unito e dalla PBS negli Usa, ndr).

L’arroganza distante del potere
Forse Cameron non ha colto l’ironia della situazione, forse ha dimenticato l’esercito di camerieri, addetti alle pulizie, cuochi e facchini che erano presenti al banchetto. Forse pensava di trovarsi in una stanza piena di persone tutte ricche allo stesso modo, che condividevano le ragioni dell’austerity. Forse non gli è venuto in mente che tale messaggio potrebbe non essere così facilmente compreso da chi non aveva appena goduto di un pasto di quattro portate. Forse ha dimenticato i disabili o i disoccupati o quelli che vivono con il salario minimo, per i quali l’austerità ha avuto un effetto catastrofico.

L’austerity di Cameron
Nel suo discorso Cameron ha parlato di uno Stato “più snello, più efficiente, più accessibile”. Ha sostenuto che l’austerità potrebbe essere una politica di governo permanente, un modo di tagliare verso il basso gli eccessi amministrativi di alcuni servizi pubblici. Ha inquadrato nel contesto delle difficili condizioni di vita di oggi il taglio della spesa pubblica, perché “proviene dalle tasche degli stessi contribuenti i cui standard di vita vogliamo vedere migliorare”.

Nemmeno una parola, naturalmente, su quali tagli ci saranno al banchetto, pagato con i soldi pubblici, al quale partecipava. Forse l’anno prossimo ci saranno solo tre portate, o il dessert e i vini saranno spietatamente ridotti.

Mi chiedo come Cameron e il suo governo possono fare queste cose. A parte l’idiozia di invocare i tagli mentre indossa una cravatta bianca – ha mai sentito parlare di Twitter, quest’uomo? – come fa a non vedere quello che i tagli al welfare stanno facendo alla parte più vulnerabile della società? Se la gode a un banchetto, mentre il numero di persone che ricorrono alle banche alimentari è triplicato nel corso dell’anno scorso. Come ha detto un tipo che serviva a tavola con me: “Diventa fastidioso servire sempre cibo gratuito a persone che davvero non hanno bisogno di mangiare gratis”.

Il contenuto politico del discorso Cameron prevale, naturalmente, sull’importanza del luogo nel quale si trova.
Ma io non credo che il luogo sia irrilevante. Ho un problema di fondo con un uomo che siede su un trono d’oro e ci impartisce lezioni su come spendere di meno, come un moderno sceriffo di Nottingham, incravattato di bianco.

E tutto intorno a lui, si espande come una macchia in tutto il paese l’austerità, che si manifesta nella “tassa sulle camere da letto” (bedroom tax), nell’aumento delle tasse universitarie e nella chiusura dei servizi pubblici dai quali dipendono le persone vulnerabili.

Ognuno di noi ha una vita sola, e sono tante le vite delle persone che vengono colpite da questi tagli. Se questa è la realtà crudele e dannosa dell’austerità permanente, allora dovremmo dire a David Cameron che non la vogliamo.

L’ho già detto? Non importa: GRAZIE, RUTH!